L’anno maledetto
giovedì 10 Dicembre 2020 - Ore 22:46 - Autore: Dimitri Canello
Il 5 luglio 1982 avevo sei anni e mezzo e mi avvicinavo con curiosità al mondo del calcio, contagiato da quella passione irrefrenabile che mi trasmise mio padre. Era l’anno dei Mondiali, quelli di Spagna, quelli che cambiarono il volto a un’intera generazione. Non potevo capire, né sapere, che quell’Italia che andava all’avventura cercava un riscatto anche morale dopo la bufera del calcioscommesse. Che l’aveva resa invisa al popolo, che suscitava sentimenti negativi e che aveva spinto persino qualcuno a tifare per le squadre sudamericane. Per Brasile e Argentina.
Tutte cose che appresi anni dopo, quanto raggiunsi un’età per ragionare con la mia testa e per rivisitare quell’evento con un occhio più critico e cosciente. Ma quel giorno me lo ricordo come fosse ieri. Un caldo infernale, le porte del salotto spalancate, le bibite ghiacciate sul tavolino, mio padre e gli amici a metà pomeriggio, chi con una scusa o chi con l’altra, scappando dal lavoro, “pur di guardare il Brasile”. L’Italia era la vittima sacrificale, era partita male nella fase a gironi, si era qualificata con tre pareggi e nessuno avrebbe scommesso un centesimo su quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Al Brasile bastava un pari per passare e per spianarsi la strada verso il traguardo, la finale con la Germania era già qualcosa di cui tutti parlavano, immaginando come sarebbe stata, chi avrebbe vinto, chi avrebbe segnato.
Ricordo che mi sedetti sulla poltrona del divano, in ascolto di quei discorsi che profetizzavano un massacro sportivo, attento a cogliere ogni possibile sfumatura. Durante tutta la partita, aleggiava un misto di rassegnazione e di speranza a stento soffocata man mano che i minuti passavano. E Rossi segnò il primo gol. “Ma no, non è possibile, il Brasile rimonterà”. E Rossi segnò il secondo gol. “Adesso pareggiano”. E pareggiò Falcao. E sul 2-2 nessuno ci credeva più. E Rossi segnò il terzo gol. E a quel punto esplose un’esultanza incontenibile, ricordo perfettamente le urla, gli abbracci, mio padre che saltava sul divano di casa, gli amici che uscivano in terrazzo a liberare una gioia incontenibile. Italia-Brasile 3-2, era successo davvero. Tutto talmente inatteso che papà mi portò con la sua “Ranch” azzurra in Prato della Valle, perché qualcuno già festeggiava, forse cominciando a immaginare che il miracolo era davvero possibile.
Poi ci fu la Polonia. E Rossi segnò il quarto gol. 1-0. E Rossi segnò il quinto gol. 2-0. E tutti di nuovo in quel salotto a esultare, a urlare in terrazzo, ad abbracciarsi e poi via in Prato della Valle. E poi ci fu la finale, ci fu la Germania. E Rossi segnò il sesto gol. E poi Tardelli, e poi Altobelli, figurati se barba, baffi e capelli da cavernicolo di Breitner ci possono fare paura. E Pertini in piedi al Bernabeu, ad applaudire. E noi a esultare come matti. Quella sera ero in campagna dai nonni, guardammo la partita tutti insieme, poi tutti ancora lì in Prato della Valle, con la “112” di mia madre, la bandiera e i finestrini abbassati fino a tarda ora. Anche quello, lo ricordo come fosse ieri. Avevamo vinto il Mondiale. Paolo Rossi era il mio eroe, non sapevo neanche per quale squadra giocasse, ma era il mio eroe. E non sapevo che per esultare di nuovo avrei dovuto attendere 24 anni e chissà mai se ci sarà un’altra volta ancora.
Poi venne l’anno 2020. Eravamo decisamente più adulti, i capelli bianchi che aumentavano, le preoccupazioni tutte attorno a noi, un’altra vita, improvvisamente spenta, paurosa, castrante, claustrofobica, iconoclasta. Era un anno maledetto. Ci fu la pandemia, c’era un virus subdolo, terribile, un virus che ti portava via le persone care, conoscenti, amici, che dovevi essere felice se riuscivi a scamparla, che colpiva ovunque, la socialità, il gusto di stare con gli amici, che ti privava di tutto o quasi che non fosse l’essenziale, che ti allontanava dagli affetti, che ti costringeva a passare il Natale lontano dai tuoi cari, che andavi al ristorante e al bar con la mascherina sempre più grossa e te la toglievi solo fra un boccone e l’altro. Perché avevi paura. E poi morivano i tuoi idoli. Quelli che ti avevano fatto amare questo meraviglioso sport, che ti avevano fatto scoprire la passione, quelli che dicevi “Ho visto Paolo Rossi”. “Ho visto Maradona”. Non c’erano più nemmeno loro. Prima uno, poi l’altro. E tutto intorno un grande vuoto. E il 2020 non era ancora finito.
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