Alle radici di un flop
venerdì 25 Marzo 2022 - Ore 22:39 - Autore: Dimitri Canello
La sberla è ancora troppo fresca. E fa male, un male cane. L’Italia è fuori dal Mondiale per la seconda edizione consecutiva dopo il flop pre-2018. Se ne riparlerà dal 2026, cioè ben 12 anni dopo l’ultima partecipazione azzurra alla kermesse sportiva più importante del pianeta. A scanso di equivoci, si tratta di un fallimento epocale, forse il peggiore della storia di questo sport. Peggio delle due Coree, peggio anche del flop di Ventura.
Vorrei, però, porre una domanda provocatoria a chi legge. Se nove mesi fa vi avessero chiesto se avreste barattato due comparsate ad Europei e Mondiali, magari arrivando ai quarti di finale una volta e agli ottavi nell’altra, con una vittoria agli Europei e un’eliminazione dalle qualificazioni ai Mondiali, cosa avreste scelto? Sinceramente non ho una risposta precisa e granitica: so solo che io, come tutti, come le nuove generazioni, ricorderanno a vita quel trionfo dell’estate 2021, quella dopo la pandemia più dura, quando un Paese intero risorgeva dopo un inverno da tregenda, fatto di coprifuoco, chiusure, zone rosse e chi più ne ha più ne metta. Quel trionfo rimarrà nella storia e, come già scritto su queste colonne poco dopo la battaglia di Wembley, è stata un’impresa di proporzioni epiche. Questo per sottolineare che non dico che sia normale perdere con la Macedonia del Nord, ma forse non tutti hanno capito cos’abbia fatto Roberto Mancini lo scorso anno.
Perché, diciamo la verità, non era possibile che quel calcio italiano preso a schiaffi a ripetizione nelle Coppe Europee, quel calcio italiano che non riesce a sollevare una Coppa da tempo immemorabile, che si trascina a colpi di “abbiamo fatto bella figura”, “ce la siamo giocata” e che si appende alla Conference League della Roma (sic!) o all’Europa League dell’Atalanta per non morire d’oblio, fosse improvvisamente risorto. Quell’impresa è stata straordinaria, perché ha scavalcato valori assoluti che ponevano l’Italia ben al di sotto delle favorite per la vittoria finale. E forse ha fatto dimenticare a tutti quale sia il vero valore del calcio italiano di oggi. Quel calcio che si presenta all’appuntamento di settembre con la Bulgaria con la puzza sotto il naso, quasi fosse un fastidio in mezzo a un campionato sovrano scivolato sempre più in basso nelle gerarchie continentali e che più di qualcuno considera un cimitero degli elefanti. Ma che gira attorno a una montagna di soldi e non bisogna disturbare il (i) manovratore(i). Quel calcio che, di fronte a un pareggio premonitore, fa spallucce e dice “tanto la qualificazione non sarà un problema”. Quel calcio che sbanda ancora, sbaglia rigori (due) dopo averli usati come grimaldello per salire sul gradino più alto d’Europa e si presenta all’appuntamento decisivo con l’Irlanda del Nord pensando di fare a pezzi una Nazionale che non aveva più nulla da chiedere. E invece pareggia ancora senza segnare, mentre la Svizzera fa incetta di gol e di consensi, dopo aver eliminato la Francia agli Europei ed essere andata a un capello dall’impresa con la Spagna. Alla fine elimina pure l’Italia, che se ne va allo spareggio e tutti guardano al Portogallo, dimenticandosi che prima bisogna battere la Macedonia del Nord.
Eh si, ma vuoi che usciamo con la Macedonia del Nord? Impossibile! E vedi una Nazionale scendere in campo con le gambe che tremano, senza riuscire a centrare la porta, o sparando a salve come nel caso di Berardi, o scentrando la mira più volte, come nel caso di Immobile, Berardi, Insigne, Pellegrini, chi più ne ha più ne metta. Un solo ammonito in una partita da dentro o fuori. Il senso del flop azzurro è (quasi) tutto qui. Certo, ci sono scelte sbagliate, errori fatti per riconoscenza, sbagli e valutazioni che portano a un vicolo cieco. Eppure è l’Italia che si gioca l’accesso al Mondiale con 2/3 dell’attacco del Sassuolo, che fa entrare un attaccante del Cagliari che da tempo non regala meraviglie per risolvere la questione. In questo, in tutto questo, viene chiamato in causa Mancini. Pesantemente. Ma se l’alternativa a Roberto Mancini è Fabio Cannavaro con Marcello Lippi come direttore tecnico, mi tengo tutta la vita Mancini. Che è colpevole di un disastro, sì, ma che nove mesi fa ci ha regalato un sogno che ha fatto innamorare bambini, che ha riconciliato intere generazioni con anni trascorsi a ingoiare polvere. In un mondo e in un calcio dove la parola riconoscenza non esiste, ci sono un top e un flop (fragoroso, il peggiore di tutti i tempi) da metabolizzare. Eppure ripartire da Mancini non è una bestemmia, ma potrebbe essere la cosa più sensata. Soprattutto se sulle alternative non scommetteremmo neppure un centesimo bucato.
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