La retrocessione del Vicenza: similitudini e prospettive
lunedì 15 Maggio 2017 - Ore 23:46 - Autore: Dimitri Canello
Il calcio non è una scienza esatta, ma ci sono alcune cose che ti fanno capire, o quantomeno intuire, come andrà a finire. Che il Vicenza sarebbe retrocesso l’ho capito (almeno personalmente), il 27 febbraio, quando dopo un balletto di nomi stucchevole è stato chiaro che non sarebbe arrivato nessun attaccante ad affiancare Giulio Ebagua: a proposito, lo ribadisco, tutti (eccetto Antonio Tesoro) nell’ambiente sapevano che purtroppo il centravanti nigeriano aveva un problema serio di pubalgia. Chiusa parentesi. E soprattutto ho capito che il Vicenza sarebbe retrocesso nel giorno in cui, dopo la sconfitta con la Pro Vercelli, è stato cacciato Pierpaolo Bisoli, l’unica scelta azzeccata di una stagione rovinosa. C’era qualcuno che si era annotato le mie previsioni sperando di sbattermele in faccia nel giorno della salvezza biancorossa, come se io stessi lì a gufare. Invece purtroppo per lui non è stato così, perché è da un po’ anni che conosco il mondo del calcio e certe situazioni si ripetono ciclicamente con preoccupante costanza. E c’è un’altra cosa. Sarà perché certe cose restano scolpite nella mente, ma vedo tante, troppe similitudini, con quanto accaduto a Padova nella stagione 2013-2014. Anche in quel caso, si parlava di un presidente attivo nel campo della grande distribuzione, come Marcello Cestaro, impegnato a cercare di liberarsi di un asset indebitato e tossico per il gruppo Unicomm. E che aveva avuto la geniale pensata di chiamare al suo “capezzale” un infelice avventuriero del mondo del calcio come Diego Penocchio. Riuscito nell’impresa di far retrocedere (e poi fallire, sportivamente parlando) la squadra collezionando errori su errori, circondato da consulenti ombra e da dirigenti nella migliore delle ipotesi incapaci. Ecco, il Vicenza 2016-2017 mi sembra in una situazione quantomeno simile. L’ho seguito con attenzione per tutto l’anno, perché c’erano tante, troppe cose che non andavano e i conti non mi tornavano.
Andiamo con le similitudini: come nel Padova, anche nel Vicenza c’era una precedente proprietà, quella di Sergio Cassingena che (nonostante in molti facessero e facciano ancora finta di non sapere) aveva lasciato macerie su macerie, con debiti che lievitavano e con una zavorra (un club che ha 115 anni di storia) abbandonato praticamente a se stesso. I nodi, però, prima o dopo vengono al pettine. Ecco, dunque, la nebulosa finanziaria Vi.Fin, che ancora oggi non si è ben capito quali equilibri abbia e perché venga gestita in un certo modo, con un padre padrone che ha poco più del 20% delle quote eppure ha deciso tutto, fino a far precipitare nel burrone tutti con sé. Vi.Fin e Alfredo Pastorelli, come Diego Penocchio, almeno inizialmente, sono partiti con i migliori propositi, poi sono caduti rovinosamente.
Ancora similitudini: un allenatore come Franco Lerda in panchina che, rispetto a Dario Marcolin, quantomeno aveva centrato un’incredibile salvezza pochi mesi prima, esonerato prestissimo. Un direttore sportivo come Antonio Tesoro, che mi ricorda tanto Marco Valentini, uno che a Padova ha fatto più danni della grandine. Quel Tesoro preoccupato più di blandire i suoi canali privilegiati, a cui comunicava anche quando andava in bagno, anziché lavorare per risolvere i problemi che, settimana dopo settimana, si accumulavano in seno alla squadra. Quel Tesoro che presentò tale Fabricio Fontanini come se fosse il nuovo Beckembauer, che acquistava giocatori infortunati senza saperlo e che pensava di essere tanto bravo da poter ignorare quello che, prima di tutto il buon senso, suggeriva. A proposito: Valentini fece lo stesso con tale Renato Kelic, spacciato come un fenomeno e poi miseramente affondato al primo venticello contrario. Anche in quel caso la stessa frase: “Lo abbiamo strappato a top club d’Europa”. Quel Valentini che prima fece terra bruciata attorno al ds ufficiale, Alessio Secco, poi prendendone le veci.
Similitudini, parte tre. Anche a Vicenza, come a Padova quell’anno, tre allenatori: nella città del Santo, Marcolin, Mutti e Serena, arrivato quando ormai si poteva fare ben poco, nella città del Palladio Lerda, Bisoli e il povero Torrente, l’unico a presentarsi in sala stampa nel giorno della bandiera bianca ammainata sul ponte di comando. Oggi, a due giorni di distanza, lo ha fatto Tesoro, dopo essersi nascosto anche sabato, senza presentarsi in sala stampa a Cittadella, lui che detiene ancora la direzione sportiva della squadra, lasciando che Torrente facesse da parafulmine.
Similitudini, parte quattro. Anche a Vicenza, come a Padova, ecco una serie di giocatori sulla carta forti, ma scava scava e scopri che, o avevano problemi fisici, o erano infortunati, o erano arrivati troppo tardi, o erano in prestito, o con la testa altrove. Ergo: le squadre non si costruiscono come gli album di figurine.
Similitudini, parte cinque. Anche a Vicenza, come a Padova, veleggiano consulenti ombra il cui ronzio è appena percettibile e che non hanno portato a nulla di buono. A distanza di tre anni, l’epilogo sul campo è lo stesso: 41 punti in entrambi i casi, retrocessione in Lega Pro al terz’ultimo posto in entrambi i casi. Manca ancora un passaggio: sapere se il Vicenza rimarrà in piedi o no. Lo spettro, in entrambi i casi, era (è) il fallimento. C’erano tanti debiti allora, ce ne sono tanti adesso. E la Lega Pro, come noto, è un bagno di sangue. Vedremo. Una sola raccomandazione: se per caso l’epilogo fosse lo stesso di Padova, non si dimentichi chi ha fatto i debiti divenuti sempre maggiori anno dopo anno e non si scarichi tutto sull’ultimo arrivato. Colpevole, certo, ma non più di quanti hanno maneggiato e messo nelle tasche altrui la patata bollente quando non riuscivano più a tenerla in mano.
PS. Se fossi un tifoso non augurerei il fallimento neppure al mio peggior nemico. Perché un conto è batterlo sul campo con la propria squadra, un altro è vederlo scomparire quando non ha nessuna colpa. Questo, da Trieste a Vicenza, da Padova a Treviso e a Venezia, dovrebbero capirlo tutti. Molti lo hanno già fatto, perché quando cancelli o rischi di cancellare la storia di vessilli che hanno scritto pagine epiche di calcio, nessuno può goderne. Neppure l’avversario più fiero. E se mai si dovesse ripartire dalla D, magari dal presidente dell’Arzichiampo Lino Chilese o da chi per lui, magari un po’ d’aria buona farà bene.
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